sexta-feira, 16 de fevereiro de 2007



"Le rose del deserto"

da Mario Monicelli

Trama: Una sezione sanitaria dell'esercito italiano si accampa nell'estate del 1940 a Sorman, una sperduta oasi nel deserto della Libia. La guerra lì appare come qualcosa di astratto e distante, di cui arriva solo un’eco saltuaria e menzognera attraverso la retorica dei bollettini di guerra. Nel campo c'è un'aria rilassata: il maggiore comandante passa il tempo a scrivere appassionate lettere d'amore alla sua giovane moglie mentre un frate italiano coinvolge i militari nel soccorso della popolazione locale bisognosa di aiuto. La spedizione sembra così trasformarsi in una missione umanitaria. La situazione della guerra nell'Africa settentrionale, però, all’improvviso, cambia bruscamente e il campo di Sorman viene invaso, prima dai soldati in fuga, poi dai feriti che cercano scampo dagli inglesi. Ufficiali e soldati della sezione si trovano per la prima volta bruscamente a contatto con la realtà della guerra.

Ambientazione: Djerba (Tunisia) / Tozeur (Tunisia)



Mario Monicelli

Novantuno anni, un’eccezionale carriera alle spalle, il regista racconta il suo ultimo film "Le rose del deserto", girato in parte in Africa. E’ la sua sessantacinquesima opera

Mario Monicelli: «Voglio ancora far ridere e commuovere»


Boris Sollazzo

Liberazione 12 luglio 2006

Roma

Lo scorso anno Europa Cinema, a Viareggio, ne ha festeggiato i 90 anni. Quest’anno Narni, nel festival "Le vie della memoria", gli ha regalato la serata finale, proiettando la copia restaurata de L’Armata Brancaleone, da cui il sottotitolo della rassegna curata da Montaldo e Crespi, Branca l’autore. Tutti lo chiamano maestro, anche se lui storce il naso. E’ Mario Monicelli che, non a caso, comincia la sua chiacchierata con una delle sue battute sferzanti. «Noi facciamo cinema perché non sappiamo fare di meglio. Io, per esempio, volevo fare il giornalista, il letterato».

Lo incontriamo davanti a un frugale pranzo, pausa necessaria durante il lavoro incessante sul suo ultimo lavoro: Le rose del deserto. Tratto dal libro Il deserto della Libia di Mario Tobino, viareggino anche lui - «ma ho preso molto anche da Fusco» -, racconta di una piccola armata brancaleone coinvolta nella guerra coloniale. Film al maschile, con protagonisti eccellenti come Michele Placido, Alessandro Haber e Giorgio Pasotti. Il primo è un frate sui generis, gli altri due soldati. Si troveranno a nascondersi dal conflitto trovando una naturale cooperazione con i locali, tra cui la bellissima modella- attrice israeliana Moran Atias.

Un film che si prospetta interessante, presumibilmente pronto in autunno, corteggiato, si dice, dalla Festa del Cinema di Roma. «Non capisco davvero tutto questo parlare del mio film - quasi si lamenta il regista -, quando è così si rischiano grosse delusioni. Neanch’io so ancora come verrà». Solito burbero e antiretorico SuperMario, come sembra lo abbia soprannominato la troupe sorpresa dalla sua vitalità sul set africano. «Sette settimane. Se non conti le tempeste di sabbia». Così comincia il racconto di quest’ultima avventura. Il suo 65esimo film. E non solo.


Cosa l’ha spinta in questa impresa titanica?

Cosa dovevo fare. Conosco la zona, l’Africa e ho fatto la guerra. Quella del 1940-43, così poco trattata dal nostro cinema. Leggendo Tobino, volendo raccontare la vicenda di quei soldati mi è venuto naturale. La fatica non conta. Chiudermi in una stanza a fare un film che non mi piaceva, che non mi interessava, quello sì sarebbe stato spossante.

Ciò non toglie che il film sia stato faticosissimo

Molto, a partire dalla ricerca dei finanziamenti. Non è facile per un novantunenne, non trovi neanche nessuno che ti assicuri, oltre al fatto che l’età rende scettici sul buon esito tutti i produttori. Ma grazie alla troupe e al cast siamo arrivati alla fine di quest’avventura, nonostante le tante difficoltà, le condizioni precarie di lavoro.

Non che i giovani se la passino meglio…

Il problema è che il cinema è un industria. Un’arte minore, un’arte applicata che ha bisogno di un ampio respiro. Come negli Stati Uniti, come ai tempi d’oro della commedia all’italiana, in cui di film all’anno se ne facevano trecento. Ma c’è molto disinteresse.

Pensa che oggi il cinema nutra di qualche speranza in più?

E’ inevitabile, quando il governo è di sinistra e il presidente della Camera è di Rifondazione. Non dico comunista, perché altrimenti chi sa che succede. Ma qui a mancare sono i quattrini e quando si deve togliere si pensa subito alla cultura. Per fortuna però non ci sono più quei voltagabbana marrani di Bondi, Cicchitto e Adornato.

Ha detto che ha intenzione solo di far ridere e di commuovere

Io voglio raccontare, realmente e con semplicità. Ho scelto un argomento che mi interessa e che conosco, che desideravo mettere in luce. Non vuol dire fare un film stupido, solo non avere tesi precostituite. Se quello che dico farà riflettere meglio ancora, ma non voglio insegnare nulla.

Parlare di guerra oggi, è solo un caso?

Parlo di un uomo che è stato definito uno statista. Da De Felice fino alla nipote Alessandra. Quel Mussolini che entrò in guerra con opportunismo, convinto che fosse finita e che non aveva capito niente. Da qui nasce il dramma, a causa di un borghese che sacrificò il popolo portandolo alla rovina.

Come non riconoscervi Berlusconi alle prese con l’Iraq?

Un altro grande statista, appunto. Ma non c’è politica nel film, non c’è bisogno, la storia è lì che parla da sola. E’ sempre stato così in tutto il nostro cinema, mio e dei miei compagni. Anche Age e Scarpelli non scrivevano certo a tesi.

Questo potrebbe essere il motivo per cui a sinistra siete stati registi poco amati?

Noi non piacevamo a nessuno. Critici illustri, che ci sono ancora oggi, neanche ci rivolgevano la parola. Essere popolari divertendo veniva considerato un peccato. Un’esagerazione, che sicuramente era presente a sinistra, ma non solo. Così come ora definirci il cinema italiano è esagerato. Non eravamo idioti prima, non siamo guru oggi.

Non perde il vizio di raccontare i perdenti

Come potrei diversamente? Non potrei definirmi comunista, altrimenti. Se uno vuole raccontare la condizione umana, deve parlare di chi soffre, perde, viene sopraffatto e cerca di liberarsi dal padrone. Mi viene naturale raccontare i modi, anche umoristici, con cui cercano di migliorare la loro condizione. Perché è sempre gente autentica, che guarda con ironia alla loro sorte, che cerca la comunità, come i ladruncoli de I soliti ignoti. Comunque nei miei film, vedi L’Armata Brancaleone, la sconfitta non è mai senza domani. Così anche La grande guerra e Speriamo che sia femmina.

Da Calciopoli a campioni del mondo. Tutto merito di un viareggino come lei, Lippi. Sembra la trama di un suo film

Ora sembrerò snob. Ma queste feste esagerate sono la dimostrazione della difficile situazione dell’Italia di oggi. Cosa c’è da esultare, da mitizzare? Sembra di stare sotto i Borboni che dicevano di tenere a bada il popolo con festa, farina e donne. Perché esultare, per aver battuto una squadra di liberti? Questo non lo ha detto nessuno, ma pensiamo al dramma di chi come loro, per la maggioranza non francesi, venivano accusati di non voler glorificare la Francia. Non si comportavano da bravi liberti. Una condizione psicologica drammatica. Entrambi sono spettacoli deprimenti.

Non le viene mai voglia di raccontare questa tragicomica attualità?

Non è possibile. Il livello è bassissimo. Cosa devo fare? Le veline, le isole dei famosi, Ricucci, Pera? Verrei sempre superato dalla realtà. Da questi politici di destra che continuano a parlare pur essendosi macchiati di azioni disgustose. Una classe dirigente deprimente che è abituata a ogni compromesso. Mi ricordo di Dolores Ibarruri, che incontrai durante la guerra di Spagna. Prima di essere fucilata disse: meglio morire in piedi che vivere in ginocchio. Ecco, loro sono felici di vivere in ginocchio. Certo, a quei tempi si viveva ai piedi di Hitler. Ora di Berlusconi: l’ultima degradazione.